lunedì 30 giugno 2008

All’attacco la lobby di Goethe

Export culturale
di Alessandro Melazzini

Il Sole 24 ore, 29 giugno 2008
Goethe Institut, il peggio è passato. Dopo un periodo d'instabilità causa ristrettezze economiche l'istituto per la promozione della lingua e della cultura tedesca torna ora a dispiegare tutto il "soft power" di cui la Germania è capace. Una rinascita che è merito della riforma strutturale innescata dalla caduta del Muro quando la politica culturale della Repubblica Federale ha progressivamente spostato la propria attenzione verso i Paesi dell'Est, chiudendo - non senza dolori e polemiche - varie sedi europee per favorire nuovi uffici in Asia, compreso uno nella misteriosa capitale della Corea del Nord. E per il futuro sono in programma nuove aperture in Cina, Russia e Africa.
Fondato nel 1951 a Monaco di Baviera il Goethe Institut è un'associazione dotata di larga autonomia sebbene risponda al ministero degli Esteri. I suoi 3.000 dipendenti sono dislocati in 147 sedi e 83 Nazioni e amministrano quest'anno un budget di 285 milioni di euro. Corsi ed esami di lingua tedesca, diversamente da quanto accade per la diffusione dell'italiano a opera dei nostri Istituti di Cultura, costituiscono una parte fondamentale dell'attività del Goethe, sistematicamente svolta dal personale insegnante interno all'istituto e in grado di fruttare nel 2008 circa 85 milioni di euro.
«Il Goethe Institut ha svolto un ruolo importantissimo nel dopo-guerra per ricostruire l'identità culturale tedesca e "disinnescarla" dal passato nazista». Ce lo spiega Gian Enrico Rusconi, direttore dell'Istituto storico italogermanico di Trento-Fondazione Bruno Kessler e vincitore nel1997 della Goethe-Medaille, assegnata dall'istituto a quelle personalità straniere distintesi per aver arricchito la cultura tedesca e favorito lo scambio internazionale. «Non che il Goethe sia buono e i nostri Istituti Italiani di Cultura cattivi, ma certo la prospettiva è diversa. Dietro al primo c'è una grande programmazione, gli Iic invece sembrano lasciati all'improvvisazione di bravi funzionari che vivono di riflesso, adagiandosi sulla grande tradizione culturale: Leonardo, Michelangelo, la cultura neorealista e la cucina italiana, mentre al Goethe hanno sempre lavorato molto sui temi storiografici, favorendo nel corso degli anni dibattiti e discussioni di altissimo livello. Ma questo paradossalmente dipende anche dal fatto che quello italiano è un passato fin troppo vendibile sul piano artistico. Senza contare la cronica mancanza di risorse degli Istituti italiani di cultura all'estero». .
Problemi lontani da quelli del Goethe, che sebbene sia reduce da una cura dimagrante non ha mai mancato di promuovere e finanziare le traduzioni dal tedesco, nonché di ospitare ogni anno in Germania centinaia di artisti e intellettuali stranieri Perché quella del Goethe è una vera politica di lobby culturale, e l'istituto in certe sedi, come in India, annovera tra i dipendenti chi si occupa di controllare l'introduzione del tedesco nelle scuole locali.
«Sono arrivato in un momento particolarmente favorevole» afferma il neo-presidente Klaus-Dieter Lehmann, a cui si deve la digitalizzazione delle biblioteche di Lipsia e Francoforte e la fioritura museale di Berlino. Dal momento che «sono state fatte le necessarie riforme e sono aumentati i finanziamenti, regna un clima di euforia. Ora non dobbiamo più risparmiare bensì possiamo finalmente dedicarci al nostro lavoro programmatico, impegnandoci per la lingua tedesca. Perché la lingua non è solamente uno strumento, ma rappresenta un portatore di cultura di primo rango». Anche per questo uno degli obiettivi della nuova direzione è quello di costruire una grande rete globale tra i Goethe, le scuole tedesche all'estero e altre istituzioni culturali promotrici della lingua e cultura tedesca nel mondo. E con il neonato Dipartimento di strategia e valutazione l'istituto si propone inoltre di vagliare l'efficienza e la sostenibilità dei programmi culturali.
Tra i territori in cui il Goethe Institut ha lavorato con più intensità figura certamente l'Italia, dove è presente dal 1954. Negli anni scorsi si era diffusa la preoccupazione che i tagli portassero alla chiusura di una delle sette sedi presenti nel Belpaese, ma adesso da Monaco giungono buone notizie. Niente panico, nessuna chiusura. La rete rimarrà intatta e il lavoro continua, affinché i Goethe possano continuare il loro viaggio in Italia.
alessandro@melazzini.com

venerdì 27 giugno 2008

Meno istituti all’estero, più cultura

Proposte: il Direttore di New York chiede maggiori fondi. E una riforma basata sull’efficienza.

Renato Miracco: meglio tagliare le sedi inutili in Francia, Inghilterra e Spagna

dal nostro corrispondente Alessandra Farkas

Corriere della Sera, 27 giugno 2008
NEW YORK - È arrivato a New York lo scorso dicembre, la valigia piena di progetti e buone intenzioni, dopo una carriera di curatore di mostre d'arte italiana tra Otto e Novecento in luoghi quali la Tate Modem di Londra, il museo Reina Sofia di Madrid e la Camera dei Deputati a Roma. Sei mesi più tardi, il direttore di chiara fama dell'Istituto Italiano di Cultura di New York Renato Miracco è come un medico volenteroso ma frustrato davanti all'impossibile compito di curare in poche ore un malato cronico.
«Il mio mandato quadriennale è inadeguato», spiega il 55enne Miracco, «in una nazione dove la programmazione museale si fa con sei o più anni d'anticipo». Miracco si è ritrovato a fare i conti con i problemi cronici che affliggono gli istituti italiani di cultura all'estero: «Inadeguatezza di strutture obsolete, autoreferenzialità, nepotismo e mancanza di fondi».
Avrebbe voluto co-sponsorizzare mostre quali Art of the Royal Court: Treasures in Pietre Dure from the Palaces of Europe e Art and Love in Renaissance Italy, entrambe al Metropolitan Museum. Invece si è dovuto accontentare di allestire mini conferenze «a corredo». «II mio istituto riceve in tutto 500.000 euro l'anno: uno dei contributi più alti, ma briciole se paragonati agli 8 milioni di euro annui della Spagna e ai 1,5 milioni della Francia. Persino il centro culturale ceco ne ha 700.000 e il rumeno oltre 500.000 euro. Un raffronto imbarazzante se si pensa che il nostro patrimonio artistico rappresenta il 68% di quello mondiale».
Se non bastasse l'Italia ha drasticamente ridotto ìl numero dei suoi funzionari all'estero: dei 250 in servizio nel 1990, ne restano 200. «Oggi un italiano deve fare, male, ciò che due francesi o tedeschi hanno la possibilità di fare molto bene». Poi c'è il dramma degli «sprechi». «Germania e Francia chiudono in continuazione le sedi passive dei Goethe-Institut e delle Alliance Française, per finalizzare meglio le risorse e riaprire là dove la cultura ha bisogno di più sostegno».
L'Italia dovrebbe fare lo stesso? «Certo. Che senso ha un istituto italiano di cultura a Marsiglia o a Lille? Degli attuali 90 istituti ne salverei una quarantina. Li chiuderei soprattutto in Francia, Inghilterra e Spagna dove la gestione annuale costa più dello stanziamento ricevuto dallo Stato: 20-30 mila euro al mese per ogni istituto. Ne inaugurerei di nuovi in Cina, India e nei Paesi arabi».
Un altro dilemma riguarda le regioni. «In America ci presentiamo quasi sempre come città o regione, mai come Italia», incalza Miracco. «Questa lotta fratricida invece di rafforzare la nostra immagine la indebolisce. La Francia - precisa - non sognerebbe mai di presentarsi come Alsazia o Lorena». Míracco concorda con il ministro degli Esteri Franco Frattini circa la «necessità di una riforma». «Non con tempi biblici ma sporcandosi subito le mani», precisa, lanciando la proposta di «una commissione interdisciplinare tra i due ministeri, Beni Culturali ed Esteri: dieci membri con esperienza internazionale per cambiare tutto subito».
Una ricetta per migliorare le cose lui a dire il vero già ce l'avrebbe. «Per invogliare i privati ad aprire il portafoglio, propongo di dedicare spazi al nome dello sponsor». Un compito non certo facile. «Se chiedi aiuto ad Armani o Valentino, quelli preferiscono organizzarsi eventi da soli. Per l'atavica, istintiva ostilità verso lo Stato borbonico. Comunque è il pubblico che deve gestire il privato e non viceversa, altrimenti finiamo in balia del nouveau riche di turno».
Oltre alla totale autonomia degli istituti (con la possibilità di cambiare personale e assumerne di nuovo) Miracco punta alla creazione di un « board of advisors», scelti tra i curatori e direttori di musei americani, che possa aiutare l'istituto a inserirsi nel tessuto culturale americano. «Serve anche una fonazione per promuovere e sostenere finanziariamente la nuova eccellenza italiana, lontano dai vecchi modelli italo-americani».
L'istituto dovrebbe promuovere la cultura di pari passo con le istituzioni Usa. Come accadrà per la prossima mostra di Giorgio Morandi al Met, allestita in sinergia con le rassegne di disegni e acquerelli del grande artista presso l’Istituto e di sue incisioni alla Zerilli-Marimò. «Per tre mesi l'America parlerà solo dellTtalia», profetizza Miracco. Ma la sua riforma più ambiziosa riguarda il Premio New York, istituito dal ministero degli Esteri insieme all’Italian Academy. Il nuovo bando di concorso sarà emesso entro l'ottobre 2008 sul sito del ministero degli Esteri e dell'istituto e i vincitori decisi a partire dal gennaio 2009. «Vorrei creare una giuria prevalentemente americana che premi gli artisti più meritori, permettendo loro di stare a New York per 6 mesì».
Miracco ha già cominciato a scrivere un instant book: «la mappatura dei tantissimi artisti italiani re-sidenti a New York. Avere una loro traccia è doveroso e potrà costituire una base futura per galleristi, curatori e musei», dice. Al recupero della memoria e del passato ci penseranno invece i «quaderni di arte e letteratura», che raccolgono le interviste rilasciate in mezzo secolo di istituto da letterati, studiosi e artisti italiani quali Eco, Bassani, Calvino, Sifone e Pasolini.

giovedì 26 giugno 2008

Un brand da difendere. La funzione degli Istituti italiani all’estero

di Franco Narducci*

Il Sole 24 Ore, 26 luglio 2008
L’immagine dell'Italia è stata messa a dura prova nelle ultime settimane: basti pensare ai riflessi dell'emergenza rifiuti in Campania. È allora necessario risollevare questa "immagine" del brand Italia mettendo in campo strategie complesse, sicuramente non unidirezionali, giacché nell'epoca della globalizzazione abbiamo sperimentato (spesso preceduti da altri Paesi) che il nostro patrimonio culturale e artistico si coniuga egregiamente con la promozione del nostro sistema economico e produttivo. Ma chi ha il compito di progettare e attivare le strategie giuste in un siffatto scenario? AI riguardo Riccardo Viale (Il Sole 24 Ore del 12 giugno) chiama in causa gli Istituti italiani di cultura (Iic), esprimendo una critica minuziosa, dalla quale dissento ritenendola ingiusta e soprattutto non corrispondente alla realtà dei fatti.
La promozione dell'immagine dei prodotti italiani all'estero, così come l'organizzazione delle iniziative di promozione commerciale, è missione propria degli Istituti di commercio estero e delle Camere di commercio italiane all'estero. Se questi hanno bisogno di essere "riorientati" per ottenere migliori performance è su di essi che bisogna intervenire, evitando le analisi sommarie.
Il ruolo del nostro patrimonio culturale per la promozione dell'immagine dell'Italia nel mondo è importantissimo, come ha ben evidenziato il ministro Frattini sul Sole 24 Ore del 22 maggio. Alle parole del ministro Frattini vorrei aggiungere che oltre al made in Italy "light", cioè la moda, il design, i film, che sono certamente prodotti di esportazione, ma che vengono sempre più fabbricati lontano dall'Italia, e la cui competitività nel medio periodo non è sostenibile, bisognerebbe tornare a valorizzare anche il made in Italy "heavy", basato sulla conoscenza, sulla cultura scientifica, sulla tecnologia. Non dimentichiamo che il "marchio" Italia comprende anche Natta e i polimeri, Marconi e la radio, la Rai e i suoi programmi di anni fa, e così via.
Agli Iic spetta il compito di diffondere la conoscenza della lingua e della cultura italiana, anche in contatto con le imprese che vendono prodotti culturali; ma il mondo è cambiato, chiunque può andare su internet e documentarsi, occorre concentrarsi su percorsi e strategie diverse. Gli Iic oltre ad essere "diffusori" di cultura devono essere anche "broadcaster" di cultura, sfruttando i mezzi tecnologici di oggi, e "concentratoRi" di cultura, organizzando anche contatti tra i nostri scienziati e il Paese ospitante, in modo da poter "drenare" cultura scientifica e tecnologica dall'estero verso l'Italia. Su questo versante occorre sottolineare che molto è stato fatto, e Viale non può ignorarlo: abbiamo una rete primaria di 90 Iic op erante in 6o Paesi, ma abbiamo anche una rete secondaria di attività svolte da Ambasciate e Consolati che con pochi mezzi copre vaste aree geografiche come l'Asia e la zona del Golfo Persico, con il ricorso ai moderni mezzi di diffusione.
Dobbiamo tuttavia sgombrare il campo da due belle illusioni: che si possano ridurre i costi, e che sia possibile migliorare il "brand" Italia, senza migliorare il "prodotto". L'Istituto Cervantes spagnolo, portato ad esempio da Viale, ha un finanziamento di 70 milioni annui contro i 21 dei nostri Istituti. Pur tra indubbie difficoltà, gli Iic costituiscono un punto di riferimento reale e concreto per la diffu-sione della nostra cultura umanistica e scientifica, come ben sa chi vive all'estero, e ad essi molto deve la promozione dell'Italia nel mondo. Sono tanti i direttori di Istituto che a risorse limitate fanno corrispondere risultati eccellenti. Si abbia allora il coraggio di ammettere che il peggioramento del brand corrisponde a un peggioramento del Paese reale, e si riparta da lì, ben consci che una riforma è buona se riesce a interpretare le esigenze reali che il sistema richiede in un quadro definito di politica estera del nostro Paese. La diplomazia culturale deve allora riacquistare il ruolo primario che le spetta e deve riuscire a veicolare quei messaggi e quei valori propri della tradizione culturale italiana.

* Vicepresidente della III commissione Affari esteri della Camera

Il Mae punta sulla cultura per una diplomazia 'soft'

'Avamposti politici', un mezzo utile per diffondere l'immagine dell'Italia nel mondo, attraverso arte e cultura: il ministro Frattini punta sugli Istituti Italiani di Cultura all'estero

News ITALIA PRESS, 26-06-2008
Roma - Franco Frattini ha tenuto per sé la delega alla Cultura. Un fatto insolito, che si spiega, però, nell'idea del ministro: puntare sulla cultura come strumento per una "diplomazia soft".

Lo hanno dichiarato il direttore generale per la Promozione e la Cooperazione Culturale del Ministero degli Affari Esteri Gherardo La Francesca, nonchè il consigliere del ministro per le Politiche Culturali Francesco Accolla.

Insieme, hanno presentato ieri le nuove iniziative del Mae. "E' il segno importante di un grande interesse che porterà, sono sicuro, a sviluppi notevoli" ha detto La Francesca.

Accolla ha ribadito che il ministro Frattini "crede negli Istituti Italiani di Cultura come avamposti politici ed è in linea con il ministro Bondi sul fatto che vadano ripensati nella direzione della valorizzazione. L'idea che Frattini ha del direttore di un Istituto Italiano di Cultura è quella di un intellettuale manager che sappia 'vendere' la cultura italiana nel mondo".

Obiettivi "da raggiungere anche attraverso la sinergia tra ministeri", sottolinea Accolla. Idealmete in partenza proprio oggi, con l'inaugurazione a Il Cairo della mostra "Artisti arabi tra Italia e Mediterraneo". La collezione d'arte della Farnesina si arricchisce, inoltre, di una nuova sezione dal titolo "Experimenta" che, per la prima volta, porterà nella sede romana del ministero anche i più recenti linguaggi artistici.

"La Farnesina in questo modo vuole sostenere concretamente la creatività di giovani autori. A spingerci in questa direzione è la consapevolezza che arte e cultura costituiscono uno dei canali più potenti ed efficaci attraverso i quali l'Italia si presenta al mondo" comunica in una nota ufficiale il Ministro Frattini.

Si tratta, si spiega, di un "tentativo concreto di utilizzare al meglio lo strumento culturale a fini politici", spiega il direttore generale Gherardo La Francesca.

"Artisti arabi tra Italia e Mediterraneo" mette a confronto opere realizzate da artisti italiani, egiziani, libanesi e siriani. Lo scopo è quello di evidenziare influenze reciproche e punti d'incontro. "Facilitare il dialogo - spiega La Francesca - perché quando c'è la consapevolezza di una radice e di una storia comuni diventa più facile anche discutere di argomenti diversi". Si tratta di una mostra itinerante, che rientra nel pacchetto "Convergenze mediterranee".

La collezione d'arte della Farnesina vanta oltre 240 opere, e ha dato vita alla mostra itinerante partita da Sarajevo e già ospitata in sei Paesi dell'Europa Orientale e a Lima. Si concluderà a Guadalajara dopo aver toccato 11 Paesi. La collezione si arricchisce ora di una nuova sezione, dedicata alle ultime generazioni di artisti, 82 in tutto, rappresentativi dell'Italia, da nord a sud.

Da oggi, fino al 28 giugno, le nuove opere della sezione "Experimenta" saranno allestite al IV piano del MAE. Le si potrà visitare anche la sera del 5 luglio, in una sessione speciale dell'iniziativa "Farnesina Porte aperte".

Anche "Experimenta" darà vita ad una mostra itinerante in tutto il mondo in occasione dei grandi appuntamenti d'arte, come le biennali. "Si tratta di un portale per la cultura che sarà l'organo di informazione informale dell'attività istituzionale", ha spiegato Francesco Accolla.

"Una 'macchina' in attivo che funziona grazie ai 21 milioni di finanziamento pubblico ma che, stando ai dati del 2007, ha incassato ben 23 milioni attraverso corsi di formazione, di lingua italiana e sponsorizzazioni dirette o indirette realizzando, al contempo, 7 mila eventi in 114 Paesi, visitati da 8 milioni e mezzo di persone e protagonisti di 8.500 articoli sulla stampa di tutto il mondo e di oltre 2 mila ore di trasmissione radiotelevisiva", ha commentato Gherardo La Francesca. E Accolla ha concluso: "Questo significa che con la cultura si può anche guadagnare". News ITALIA PRESS

lunedì 23 giugno 2008

Per esportare cultura servono fondi

Discussioni
di Giovanni Puglisi

Il Sole 24 Ore, 22 giugno 2008
Circa dieci anni fa un convegno, ben riuscito, alla Farnesina ebbe come titolo «La cultura italiana all'estero è politica»: per quel tempo l'affermazione apparve azzardata, oggi la cosa sarebbe del tutto normale. Eppure l'oggetto centrale del quel convegno costituisce ancor oggi ragione di polemiche (l'ultima, sollevata domenica scorsa da Riccardo Chiaberge), qualche volta a buon diritto, molte volte fuori luogo. Non ritengo infatti che sia mai il caso di sollevare polemiche in modo indistinto sulla rappresentanza culturale italiana all'estero. Sarebbe ingiusto per quanti, con senso di responsabilità, al centro e in periferia, si impegnano nella loro attività professionale; sarebbe demotivante per tutti coloro che in questi anni hanno cercato - con risultati apprezzabili, se confrontati con le difficoltà e, spesso, le distrazioni della politica economica - di reagire all'ineluttabilità della sorte o del momento avversi.
Il nostro Paese, infatti, non è grande e rispettato nel mondo perla sua stabilità economica e monetaria o per le sue scelte in materia di ricerca e innovazione tecnologica (investiamo in questi settori meno di alcuni Paesi in via di sviluppo!), bensì per il suo patrimonio culturale, storico-artistico, paesaggistico-culturale,
sia materiale che immateriale. È di qualche giorno fa la notizia che a Parigi, su due posti in palio, l'Italia è stata eletta al Comitato Intergovernativo per il Patrimonio Immateriale dell'Unesco con 77 voti, superando Cipro e la Norvegia, entrambi a 49 voti (quest'ultima alla fine ha preferito ritirarsi). Eppure le voci - e non solo - sulla riduzione degli investimenti in cultura, formazione e ricerca nel nostro Paese sono sempre più insistenti: ogni taglio finanziario li penalizza prima e più che qualsiasi altro settore della vita produttiva -giacché di produzione comunque si tratta. Gli Istituti di cultura all'estero non fanno eccezione, anzi a fronte di una competizione internazionale sempre più serrata sono, quanto meno, sempre fermi là dove li abbiamo lasciati l'anno precedente.
Più risorse finanziarie e umane, maggiore qualità, maggiori, energie appositamente reclutate, piuttosto che "riqualificate" da altre professionalità pur rispettabili, darebbero una vitale boccata d'ossigeno al sistema: come, forse, una legislazione rinnovata e più adeguata sarebbe necessaria per un'offerta culturale al passo con l'invadente "globalizzazione": occorre però fare attenzione a non buttare l'acqua con tutto il bambino. Oggi il sistema, con tutti i suoi difetti e nonostante le sue innegabili pecore nere, produce risultati degni di rispetto, se solo si considera - per esempio - che le entrate per corsi di lingua italiana organizzati all'estero da Istituti di cultura hanno largamente superato nel 2007 il significativo ammontare 15 milioni di euro. La coscienza dei propri problemi - e anche dei propri difetti - non si può, né si deve mai spingere fino al disfattismo: i successi all'Unesco dopo tutto debbono darci il coraggio e l'orgoglio della nostra identità, riconosciuta e apprezzata nel mondo, anche per merito di chi professionalmente se ne occupa alla Farnesina, negli Istituti di Cultura, nelle Ambasciate, negli organismi internazionali. Si, la cultura italiana all'estero è politica, e oggi più che mai.
Ma occorre anche selezionare meglio il personale addetto ai nostri Istituti, troppo spesso «riqualificato» da altri mestieri. Solo la qualità ci rende vincenti.

sabato 21 giugno 2008

Istituti di Cultura

Corriere della Sera, Italians, 21 giugno 2008

Mail a Beppe Severgnini
Caro Beppe Severgnini, sono rimasto esterrefatto nel leggere l'articolo di Riccardo Chiaberge 'Fannulloni italiani all'estero' (Il sole 24 ore, 15 giugno 2008), pieno di scempiaggini sugli Istituti Italiani di Cultura (IIC) all'estero. Non è vero che, in ogni IIC, ci siano dai 2 ai 4 addetti culturali. La maggior parte degli IIC è sotto organico. Né è vero che i funzionari della promozione culturale "lavorano poco" (= le canoniche 36 ore contrattuali), accumulando, sotto forma di straordinari, ogni "minuto di lavoro svolto in più". È altrettanto falso dire che i funzionari "colti e volenterosi", quelli che conoscono la cultura italiana e le lingue straniere, sono un'esigua minoranza. Tantissimi miei colleghi sono professionisti con un curriculum di tutto rispetto (specializzazioni post lauream, dottorati di ricerca, pubblicazioni scientifiche, conoscenza certificata di 2-3 lingue straniere). I direttori di ruolo a volte hanno più titoli dei direttori di nomina politica. Io, al pari di tanti altri, sono entrato nei ruoli del Ministero degli Esteri con un concorso riservato ai lettori di lingua e cultura italiana (docenti di ruolo, i quali, dopo aver superato un concorso selettivo, prestano servizio nelle università straniere, pur rimanendo alle dipendenze della Farnesina). Gran parte degli IIC si regge sull'autofinanziamento e sulle sponsorizzazioni, impossibili da reperire senza un personale qualificato e pieno di entusiasmo. Un accenno all'IIC di Haifa, in Israele, che dirigo da 5 anni. Tralascio i circa 35 eventi culturali organizzati ogni anno in 'economia', e la ricaduta che essi hanno sul pubblico israeliano in termini politici. Mi limito a una valutazione meramente aziendale: nel 2008 abbiamo incassato 240.000 euro lordi con i corsi di lingua italiani. I nostri circa 700 studenti di italiano diventano clienti del 'made in Italy' e, poiché sono incoraggiati a visitare l'Italia, incrementano il nostro 'turismo culturale'. Quest'anno, inoltre, abbiamo iscritto ben 250 studenti nelle facoltà universitarie italiane: a prescindere dai vantaggi politici (quegli studenti, una volta laureati e tornati in patria, faranno parte della classe media israeliana e manterranno un rapporto privilegiato con l'Italia), la nostra economia ne ricava un guadagno immediato. Ipotizzando che siano necessari 500 euro al mese a testa per vivere in Italia, quei 250 studenti spenderanno nel nostro Paese una media di 125.000 euro al mese, ovvero 1.500.000 euro all'anno. E l'IIC di Haifa (che ha in organico solo un addetto culturale & un contrattista esecutivo) costa all'erario circa 250.000 euro all'anno. Fate un po' i calcoli se lo Stato italiano ci guadagna o ci rimette. L'articolo di Chiaberge parla di fantomatiche 'eccezioni', ma è proprio questo l'errore: la maggior parte degli IIC lavora a pieno ritmo e funziona in maniera egregia.
Direttore Istituto Italiano di Cultura di Haifa, Ph.D. (University College Dublin)
Edoardo Crisafulli

venerdì 20 giugno 2008

L’ON. DI BIAGIO (PDL) SUGLI ISTITUTI ITALIANI DI CULTURA: NON GENERALIZZIAMO E RISPETTIAMO CHI FA BENE IL SUO LAVORO

ROMA\ aise\ 20 giugno 2008
"Ho seguito con attenzione la polemica nata dalla pubblicazione dell’articolo di Riccardo Chiaberge sul Sole 24 ore relativa ai presunti dipendenti "fannulloni" degli Istituti italiani di cultura all’estero. Se è vero che in ogni organizzazione lavorativa c’è chi potrebbe rendere maggiormente, mi pare fuorviante attaccare l’intera categoria dei dipendenti come "gente super pagata che lavora poco" per poi salvare, soltanto alla fine, le cosiddette "eccezioni" nelle persone dei "funzionari colti e volenterosi che fanno onore al nostro Paese"". È quanto dichiara l’on. Aldo Di Biagio, il deputato del PdL, commentando l’articolo pubblicato sul supplemento domenicale del quotidiano il Sole 24 ore del 15 giugno scorso. (vedi AISE del 18 giugno h. 19.29)
"Ci sono – ha proseguito Di Biagio - molti addetti culturali e contrattisti preparati che operano al meglio in condizioni di esigue risorse economiche, sopperendo allo scarso numero di personale, e che meritano quindi di essere tutelati e sostenuti".
"Certo – ha concluso il deputato del PdL – c’è da sperare che la segnalazione arrivata dal giornalista Chiaberge, possa servire da incentivo a chi lavora all’estero per rendere maggiormente efficace e produttiva la rete di promozione culturale del made in Italy".

giovedì 19 giugno 2008

LA FARNESINA PUBBLICA ON LINE TUTTE LE RETRIBUIZIONI DEI SUOI DIRIGENTI

ROMA\ aise\ 19 giugno 2008- In linea con il nuovo corso di disciplina e trasparenza dettato alla Pubblica Amministrazione dal nuovo ministro Renato Brunetta, oggi anche il ministero degli Affari Esteri ha pubblicato on line le retribuzioni dei suoi titolari di strutture dirigenziali e dei Consiglieri ministeriali della Farnesina.
E, dando un’occhiata ai dati, emerge subito che questo rientrano negli standard delle retribuzioni pubbliche, senza toccare picchi al di fuori della norma.
Qualche esempio. Se si guarda alle retribuzioni annue lorde liquidate nel 2007, comprensive della tredicesima mensilità, corrisposte ai gradi della carriera diplomatica titolari di struttura dirigenziale, si riscontra che quella del segretario generale della Farnesina è pari a 237.233 euro, mentre quella di un direttore generale con il grado di ambasciatore è pari a poco più di 205mila euro. Nel caso in cui il grado del direttore sia però di ministro plenipotenziario, allora la retribuzione si attesta tra i 188.443 e i 143.032 euro, per scendere a 126.566 se il grado è quello di consigliere d’ambasciata.
Queste cifre sono il risultato delle retribuzioni di posizione e delle retribuzioni di risultato, laddove quest’ultima vale un po’ come un bonus da target raggiunto. Essa è prevista, infatti, in particolari condizioni, quando cioé sono stati raggiunti risultati di particolare rilevanza: in questo caso si applica una maggiorazione del 20% sull'importo base, che nel 2007 è stata erogata a 42 funzionari diplomatici.
Si parla sempre di importi lordi, soggetti alle ritenute previdenziali, assistenziali e dell’Irpef (43%).
Facciamo qualche altro esempio, stavolta prendendo in considerazione le consulenze a valere sul plafond a disposizione della Farnesina per l’anno 2007. Fra queste si trovano due consulenti legali, quello dell’Unità di crisi e quello della direzione generale per la Promozione Culturale, che per 7 mesi, il primo, e due mesi, il secondo, hanno ricevuto rispettivamente 26.217 e 6mila euro lordi di retribuzione, ed il consulente psico-sociale (mobbing e pari opportunità) della direzione generale per il personale ha ricevuto, per 5 mesi di lavoro, 13.500 euro. Due i consulenti per la direzione generale per gli Italiani all’Estero e le Politiche Migratorie, entrambi impegnati al ministero per quattro mesi: quello per la cooperazione giudiaria penale ha ottenuto una retribuzione pari 24.300 euro lordi, mentre quello per la realizzazione del progetto Museo Nazionale dell’Emigrazione 25mila euro.
Tutte le retribuzioni sono consultabili liberamente sul sito internet della Farnesina www.esteri.it. (aise)

mercoledì 18 giugno 2008

I fannulloni della cultura italiana all'estero

di Riccardo Chiaberge

Se rischiamo di essere estromessi dagli europei di calcio, come ci piazzeremo nelle Olimpiadi dell'arte e della creatività? L'equivalente della squadra azzurra, in questi campi, è la rete degli Istituti italiani di cultura. Sono ben 88 sparsi in altrettante città di tutti i continenti, da Tirana a Caracas. Dovrebbero essere un punto di riferimento per i nostri connazionali all'estero e una piattaforma di lancio per scrittori, artisti, cantanti.
Ma non fanno bene né l’uno né l'altro mestiere. I dieci istituti più importanti, come Londra, New York o Parigi, sono retti da direttori «di chiara fama» che restano in carica da due a quattro anni. Alcuni si mostrano all’altezza della loro fama, altri no. Ma procurano comunque un danno limitato. Il vero problema è il personale, gli «addetti culturali» e i «contrattisti» che lavorano (o dovrebbero lavorare) alle loro dipendenze.
Gli addetti culturali (due o quattro per ogni sede, di cui molti ex-professori d’inglese o tedesco delle scuole medie in soprannumero, presi in carico dalla Farnesina e spediti nel mondo), per lo più sanno poco della cultura del loro paese e meno ancora del paese in cui si trovano, ma vengono pagati come superesperti (otto-diecimila euro al mese) e si comportano da impiegati statali. Il direttore di un importante istituto racconta di aver convocato una riunione un pomeriggio alle 16,30 con due suoi «addetti» e questi dopo 25 minuti si sono alzati, perché era finito il loro orario giornaliero: «Se no facciamo straordinari e poi ce li deve dare come recupero». Il contratto prevede 36 ore e 17 minuti la settimana di presenza. Ogni minuto in più va a sommarsi al già cospicuo «monte ferie» (42 giorni se la sede è «disagiata», cioè extraeuropea: come se stare a Tokio o a New York comportasse disagi tremendi).
Alcuni di questi signori girano il mondo da vent’anni, cinque anni a Londra, cinque a Buenos Aires, e magari non parlano nemmeno la lingua del posto. Sono i Rom della cultura, un’emergenza per l’erario che il ministro Brunetta dovrebbe affrontare con la stessa «tolleranza zero» che si usa per i campi nomadi. Poi ci sono gli stanziali, legati indissolubilmente a una sede finché morte non li separi: chiamati «contrattisti», sono impiegati che guadagnano circa la metà degli «addetti». Molti sposano indigeni o indigene e si fanno una famiglia in loco, perdendo ogni legame con la lingua e la cultura d’origine. Se gli nomini Ozpetek, Saviano o Cattelan, sgranano gli occhi: loro sono rimasti fermi ai tempi di Pavese e Sofia Loren. Molti non si prestano nemmeno più a fare gli interpreti, ruolo che cedono volentieri ai giovani locali, disposti a lavorare 10-12 ore al giorno per mille euro mensili.
Ci sono per fortuna le eccezioni, funzionari colti e volonterosi, che fanno onore al Paese. Ma devono remare controcorrente in un oceano di mediocrità e di fannullaggine. E i direttori non hanno nessun potere di promuoverli, come non ne hanno di licenziare gli ignoranti. Così, invece di esportare il made in Italy artistico e letterario, diffondiamo nel mondo due prodotti tipicamente nostrani: la burocrazia e l’incultura.

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lunedì 16 giugno 2008

L’ENCICLOPEDIA WIKIPEDIA AVRÀ 100 MILA ARTICOLI IN ESPERANTO

MILANO\ aise\ 16 giugno 2008 - Wikipedia, la più grande enciclopedia libera in rete, in esperanto avrà 100.000 articoli. La lingua internazionale esperanto sarà probabilmente la ventesima lingua a raggiungere questo limite.
Ogni giorno la Wikipedia in esperanto http://eo.wikipedia.org/ cresce mediamente di 40 articoli e di qualche centinaio di aggiunte e correzioni ad articoli già esistenti. I collaboratori vengono da molte decine di Paesi e perciò possono immettere le conoscenze di diverse culture del mondo nella Wikipedia in esperanto.
Circa 100 volumi di 300 pagine ciascuno. Complessivamente la versione in esperanto della Wikipedia contiene circa 19 milioni di parole, per cui in media ci sono 190 parole per articolo o 20 linee di testo. Mettendo 600 parole su una pagina una possibile edizione a stampa avrebbe 30 000 pagine o 100 volumi di 300 pagine ciascuno.
Alcuni articoli hanno solo una frase. Altri articoli, come quello sui "delfini" o sul "muro di Berlino" hanno delle presentazioni dettagliate del tema specifico.
Con il 20° posto raggiunto nella Wikipedia la lingua esperanto conferma la sua posizione tra le lingue internazionalmente più usate. L'esperanto è una delle nove lingue in cui il Centro di Informazione in Internet della Cina http://esperanto.china.org.cn/ pubblica le sue notizie. Il motore di ricerca Google offre l'esperanto come una delle 42 lingue di ricerca.
Nel censimento in Lituania nel 2001 l'esperanto raggiunse il 16° posto tra le lingue straniere parlate dalla popolazione. Nel censimento dello stesso anno in Ungheria l'esperanto raggiunse il 18° posto.
Benché la prima grammatica dell'esperanto sia stata pubblicata nel 1887, quindi 121 anni fa, la lingua viene ora parlata da persone in più di cento Paesi in tutto il mondo.
Essa oggi occupa uno dei primi posti come lingua usata a livello internazionale e può essere chiamata "lingua in crescita nel 20° secolo": Nessuna altra lingua ha potuto migliorare la sua posizione tra le circa 6.000 lingue del mondo nel corso di un secolo dall'ultimo posto ad uno dei primi 50. (aise)

giovedì 12 giugno 2008

L’Italia un brand da difendere all’estero

di Riccardo Viale

Il Sole 24 ore, 12 giugno 2008
Perché in questi giorni vi è una grande prcoccupazione nel mondo industriale per i fatti di Napoli? Perché, oltre alle ragioni che sono comuni a tutti i cittadini responsabili del nostro Paese, vi è quela addizionale del grave danno che sta creando all'immagine dell'Italia all'estero e all'export dei nostri prodotti? Come si evidenzia dalla fotografia dei rifiuti a Napoli, pubblicata in prima pagina sul New York Times. Ed è dei giorni scorsi la notizia che il famoso serial «Sex and the City» non utilizzerà più le griffe italiane. Sarà un caso. Certo, però, che di casi così se ne cominciano a osservare.
Recentemente «Futurebrand» ha pubblicato il nuovo indice sui brand Paese (Country Brand Index). L'Italia dalla prima posizione del 2005 è passata alla terza nel 2006 fino alla quinta enl 2007. I fatti di Napoli ppossono diventare il catalizzatore di un ulteriore indebolimento dell'immagine Italia, inizíato con vari fenomeni come il declino economico, l'invecchiamento della popolazione, il pessimismo diffuso, il collasso dei servizi pubblici - Alitalia e Fs in testa - lo scandalo dei vini adulterati, il degrado di parte dei nostri beni culturali e ambientali.
Perché è così rilevante l'immagine del nostro Paese per la fortuna dei nostri prodotti e perché questi fenomeni sono così devastanti per essa? Perché fino a poco tempo fa il potenziale compratore medio estero associava all'Italia una serie di caratteristiche positive come la qualità della vita, il gusto per il bello, la gioia di vivere, la creatività, la freschezza e la spensieratezza. Questo modello mentale dell'italianità derivava da vari fattori, dalla nostra storia artistica e dalle caratteristiche umane, culturali e ambientali del nostro Paese fino alla tipologia dei prodotti esportati, soprattutto di quelli di alta gamma.
Ogni volta che il nostro compratore estero si avvicinava a una merce italiana, automaticamente scattava in lui il collegamento psicologico con il modello dell'italianità. E se la tipologia della merce era coerente con questo modello, come nel caso dell'abbigliamento, dell'arredamento e dell'alimentare, la sua propensione all'acquisto era più forte.
Come ogni rappresentazione mentale, però, anche quella dell'italianità non è irreversibile, ma si nutre di conferme continue. Se queste diminuiscono e se in più divengono salienti nella mente del compratore episodi dal forte impatto emozionale, che esaltano qualità opposte, come quelle della crisi dei rifiuti, allora il modello mentale si deteriora. E l'acquirente diventa meno attratto dal made in Italy. Oggigiorno questo è il rischio per le nostre imprese. Come fare a neutralizzarlo? Nel breve termine sembra irrealistico pensare di risolvere le molte crisi in atto. Bisogna allora tentare di neutralizzare i messaggi devastanti dei media stranieri su ciò che avviene nel nostro Paese con un'azione decisa di marketing del brand Italia all'estero. Finora gli strumenti utilizzati hanno fallito questo obiettivo.
Gli Istituti Italiani di Cultura, pur se da anni sottoposti alla critica e insoddisfazione di tutti, non sono mai riusciti a emulare iniziative di altri Paesi come il British Council, il Goethe e il Cervantes. Non riescono né a svolgere il compito tradizionale di pubblicizzare il meglio della nostra cultura umanistica, né ad assumere ruoli più moderni come la promozione della cultura italiana in senso allargato, dal design industriale alla moda all'architettura allo stile di vita fino alla cultura materiale e immateriale delle varie identità territoriali.
Manca all'estero un vero ambasciatore dell'espressione estetica del nostro Paese che sappia contrastare i messaggi di bruttezza e desolazione che arrivano dall'Italia e vengono veicolati dai media locali.
Manca all'estero un regista della diffusione del binomio cultura e prodotto italiano, anche per la scarsa attività della maggior parte degli Istituti del Commercio estero. Dall'epoca del ministro Gianni De Michelis, vent'anni fa, fino agli impegni del ministro Franco Frattini, (evidenziati nella lettera in risposta a un articolo di Salvatore Carrubba pubblicata sul Sole-24 Ore del 22 maggio) si parla, periodicamente, di riforma radicale degli Istituti. Alcuni studi hanno mostrato anche la strada da seguire: riduzione delle sedi e concentrazione delle risorse in quelle più strategiche per l'immagine dell'Italia; presenza di manager della cultura, di esperti di marketing territoriale e di fond raising, controllo di gestione e valutazione dei risultati; integrazione con le organizzazioni imprenditoriali, camerali e turistiche.
Forse i cambiamenti richiesti potrebbero essere, però, troppo profondi per essere sopportati dall'attuale configurazione organizzativa. Troppo forte potrebbe essere l'inerzia e la path dependance istituzionale per consentire una seria riforma. In questo caso sarebbe auspicabile l'esternalizzazione delle loro funzioni in un'agenzia esterna creata dalla collaborazione pubblico privato
e la contemporanea realizzazione nelle principali città del mondo di iniziative simili alla Casa Italia che aprirà prossimamente, a Shanghai, promossa dalla Triennale di Milano con alcune importanti aziende italiane, che amplia la fortunata esperienza "Spazio Design" di Tokyo.